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Ok, l’avrete sentita citare centinaia di volte quella cosa che in cinese la parola crisi (weiji) significhi anche “opportunità”. Una traduzione che non è nemmeno del tutto corretta, ma che si è diffusa a partire dagli anni ’60 quando in un suo discorso ne fece uso il Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Il radicamento dell’idea che essa contiene, è comunque dovuto al fatto che sì, probabilmente ogni momento critico ci spinge a un cambiamento, e il cambiamento punta per sua natura a una condizione migliorativa, quindi rappresenta un’opportunità. Questo ampio preambolo per affrontare un tema legato a questo momento di emergenza dovuto al coronavirus, e che sicuramente manterrà la sua attualità e importanza anche dopo che l’emergenza sanitaria sarà conclusa: lo smart working, le potenzialità che offre al mondo economico e produttivo italiano, ai lavoratori e alle imprese.

Prima di tutto: cos’è lo smart working

La definizione di smart working, volendo rimanere sul piano dell’ufficialità, è contenuta nella Legge n. 81/2017, che descrive una modalità di lavoro dipendente (il lavoro da casa dei liberi professionisti è un’altra cosa) caratterizzato da flessibilità organizzativa, volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e dall’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (computer portatili, tablet e smartphone).

L’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ha condotto un sondaggio sui responsabili degli smart worker, da cui emerge che questo modo di lavorare ha un impatto positivo sulla responsabilizzazione per il raggiungimento dei risultati (indicato dal 37% del campione), sull’efficacia del coordinamento (33%), sulla condivisione delle informazioni (32%), sulla motivazione e la soddisfazione sul lavoro (32%) e la qualità del lavoro svolto (31%). L’unico aspetto sul quale viene espressa la rilevazione di criticità è la condivisione delle informazioni.

Sempre secondo i dati dell’Osservatorio, il numero degli smart worker è passato dai 480.000 stimato nel 2018, ai 570.000 del 2019. Ovviamente ci sarà da analizzare nel dettaglio tra qualche mese il dato del 2020, che sicuramente vedrà una crescita molto forte visto che per tante realtà imprenditoriali, lo smart working ha rappresentato l’unica modalità attraverso la quale continuare ad operare nella fase di lockdown.

Non un semplice “telelavoro”: è necessario un diverso paradigma

C’è però un “fraintendimento culturale” in cui si rischia di cadere e che invece deve essere superato: lo smart working non va inteso come un semplice telelavoro, e non vanno replicate a casa le stesse modalità e i modelli operativi che vigono normalmente in ufficio. Non significa semplicemente passare dalle riunioni in presenza alle videocall.

Non deve essere una modalità operativa rigida e costrittiva, che preveda di lavorare senza soluzione di continuità, reperibili in ogni momento. Dovrebbe essere invece un nuovo approccio al modo di lavorare, che deve passare attraverso una maggiore autonomia concessa ai dipendenti, sistemi di comunicazione meno rigidi, la riorganizzazione degli spazi di lavoro, e che ponga maggiormente al centro la persona, così da costruire obiettivi che sovrappongano il più possibile quelli dei dipendenti e quelli dell’azienda, attraverso la responsabilizzazione derivante da una maggiore libertà nella gestione dei tempi di lavoro.

Guarda caso, l’Italia deve recuperare terreno

Si tratta di un passaggio di mentalità epocale, che non sarà certo facile nel nostro Paese. Anche se i dati del 2020 potranno vedere una crescita consistente dello smart working come accennato, come su moltissimi temi legati all’economia, e in particolare ai suoi sviluppi più moderni e innovativi, anche su questo settore specifico prima della crisi coronavirus l’Italia era in una posizione estremamente arretrata rispetto alla media europea, con un 2% dei lavoratori che operavano in tale modalità.

Per fare un esempio, ai primi posti in Europa, ci sono Paesi come la Danimarca e la Svezia che, tra lavoratori che operano esclusivamente in modalità smart working e altri che alternano tale modalità con la presenza in ufficio, sfiorano percentuali tra i 33 e il 37%. In più c’è un altro fattore di arretratezza che grava sull’Italia: il divario digitale.

Non tutte le connessioni sono in grado di reggere un numero cospicuo di dispositivi collegati, e ci sono aree del nostro Paese che ancora oggi, nel 2020, hanno serie difficoltà ad avere copertura internet. Infine un italiano su tre dichiara di non avere gli strumenti hardware e software idonei per rendere il lavoro da casa non soltanto agevole, ma addirittura minimamente praticabile.

Incentivi per rendere lo smart working non solo una misura d’emergenza

L’emergenza coronavirus però ha dimostrato come lo smart working rappresenti una modalità da sostenere e incoraggiare non soltanto in questa fase, ma anche per il prossimo futuro. Il Governo lo ha incentivato in queste settimane per fronteggiare la crisi, ma valutandone le ricadute sarà sicuramente di grande importanza anche un sostegno in seguito, per una molteplicità di aspetti positivi che evidenzieremo più avanti. Ma intanto va segnalato che un sondaggio elaborato da Izi in collaborazione con Comin & Partners ha evidenziato che il 57% dei lavoratori in smart working sarebbe ben disposto a una formula di lavoro agile parziale anche dopo l’emergenza, persino a fronte di uno stipendio più contenuto.

I pro e i contro dello smart working

Ovviamente lo smart working non è il nuovo eldorado dell’economia, ma analizzando i pro e i contro, sembrano di più gli aspetti positivi. Ad esempio un risparmio di denaro per i lavoratori, che da alcuni studi può arrivare fino a 4000 euro all’anno, per i costi più bassi legati agli spostamenti e all’usura dell’auto, o i pranzi per chi non ha la mensa aziendale, solo per citare due esempi. Ridurre gli spostamenti significa anche ridurre l’inquinamento e l’emissione di Co2 in atmosfera.

Inoltre tagliare i tempi di trasferimento, comprese le code e il traffico urbano, consente un forte risparmio di ore e un possibile aumento della produttività. C’è inoltre un aumento del tempo disponibile per la vita domestica, familiare, e per le proprie necessità, vantaggio tutt’altro che secondario. Dall’altra parte c’è, come hanno segnalato alcuni manager citati nella ricerca dell’Osservatorio per lo smart working, una maggiore difficoltà nel trasferire e condividere informazioni, nell’utilizzo di programmi e server aziendali, nel confronto quotidiano con i colleghi. Svantaggi che però appaiono superabili una volta che l’azienda sceglie di puntare con decisione su questa modalità operativa adattandosi gradualmente.

Un’opportunità non ancora pienamente compresa: la rivitalizzazione dei territori

C’è poi un aspetto nella crescita dello smart working che potrà avere effetti duraturi e potenzialmente dirompenti, che non è stato ancora pienamente analizzato: la rivitalizzazione di territori periferici, distanti dai grandi centri urbani. Da anni gli amministratori di queste zone sono impegnati nel costruire progetti e proposte per cercare di mantenere le famiglie e i giovani, ma si sono sempre scontrati con le difficoltà occupazionali, il pendolarismo che dopo un po’ spingeva inesorabilmente a trasferirsi, e più in generale con un fenomeno sociale di durata secolare: quello del costante inurbamento e dell’accentramento dei servizi verso le città.

Un esempio alquanto tangibile e vicino sono gli sforzi condotti per rivitalizzare la fascia appenninica. Ora tante persone attraverso l’emergenza coronavirus hanno avuto modo di accorgersi delle criticità della vita urbana (inquinamento, socialità logorata, insicurezza) ma anche degli aspetti positivi di vivere in questi territori: un ambiente più sano, grandissimi spazi verdi, una socialità forte, la facilità maggiore nel mantenere gli “spazi interpersonali”, un tema che con ogni probabilità ci seguirà anche una volta superata l’emergenza sanitaria.

Ora lo smart working potrebbe essere l’ingrediente finale per invertire o quanto meno frenare lo spopolamento di questi territori, tanto che si sta puntando ancor di più sulla riduzione del divario digitale coprendo anche i paesi più distanti con linee sufficientemente veloci, e rendere l’ipotesi di risiedere in collina o in montagna e lavorare a distanza non più così complicata.

L’esperienza Kaiti expansion

Dopo che alcune esperienze erano già state condotte in precedenza, fin dalle prime fasi dell’emergenza coronavirus Kaiti expansion ha introdotto la modalità dello smart working per tutti i propri dipendenti. Dopo una normale prima fase di adattamento, i risultati sono stati assolutamente confortanti, garantendo la piena operatività aziendale anche da lavoro in remoto. Un’esperienza di cui si terrà sicuramente conto anche una volta superata l’emergenza, e che nel frattempo ci ha consentito di rispondere alle richieste dei nostri partner e clienti, contribuendo ad affrontare in questo modo un momento che ha messo tutto il mondo aziendale e produttivo sotto fortissima pressione, e cercando di porre le basi per la sua ripartenza il più rapidamente possibile. Sono state messe in campo anche diverse opportunità verso questo obiettivo, quali la campagna Insieme RipartiAMO, il sostegno per accedere al Bonus Pubblicità e l’iniziativa Italian Food Warriors dedicata ai ristoratori.